Mattone #2: Un sasso nello stagno
Rodari crede nel potere delle parole di mettere in moto infinite reazioni a catena. Nella scuola del carcere abbiamo usato le parole come onde, per aprirci a nuove possibilità.
Ciao, sono Sara, e questa è la seconda puntata di Mattone: una newsletter che parla di scuola, educazione, cittadinanza attiva e tutto quello che c'è attorno.
Dopo aver cominciato con il rito dell’appello, oggi ragioniamo sul tema dell’identità e su come possiamo usare le parole in gruppo, per osservare chi siamo, definirci e – perché no? – ridefinirci.
Ogni dire mette in moto. Come scrive Rodari nella sua Grammatica della fantasia, le parole sono onde che chiamano altre onde, generando connessioni e rimescolando le nostre percezioni di ciò che siamo e della realtà:
Un sasso gettato in uno stagno suscita onde concentriche che si allargano sulla superficie, coinvolgendo nel loro moto, a distanze diverse, con diversi effetti, la ninfea e la canna, la barchetta di carta e il galleggiante del pescatore… Non diversamente una parola, gettata nella mente a caso, produce onde di superficie e di profondità, provoca una serie infinita di reazioni a catena, coinvolgendo nella sua caduta suoni e immagini, analogie e ricordi, significati e sogni.
Nella relazione tra chi insegna e chi impara (che poi è sempre una relazione all'interno della quale i ruoli sfumano continuamente l'uno nell'altro), le parole sono importanti: quelle che scegliamo di pronunciare, così come quelle che decidiamo di non usare.
Perché le parole non servono solamente a definire, ma anche a rinegoziare quanto ci sembra ormai dato; ci aiutano nella ricerca di una nostra consapevolezza, così come ad aprirci a nuove possibilità.
1. A scuola d’identità, in carcere: dalle categorie al brainstorming
Il lunedì, nella scuola carceraria in cui insegno, tengo un Laboratorio di Italiano. Leggiamo e scriviamo moltissimo; disegniamo, anche. Ogni settimana propongo un tema diverso su cui lavorare, ma la prima volta ho iniziato con una domanda: “Partiamo da voi: chi siete? Cosa vi accomuna, in quanto persone, quando pensate alla vostra identità?”.
Uno studente dal fondo esclama: “Spacciatori, siamo spacciatori!”. Tutti cominciano a ridere (è una risata prima fragorosa, poi amara)1. “È questo che sentite di essere?” chiedo. “No, è quello che siamo stati” risponde uno di loro. “Solo alcuni di noi” si affretta a specificare un altro. “Io non vorrei esserlo più” commenta un altro ancora.
“Di sicuro va bene rispondere carcerati” dice K., seduto in prima fila…
A un certo punto un ragazzo si alza in piedi: “Secondo me la parola giusta è clandestini”. Mi chiede il permesso di scriverla alla lavagna. Tutti hanno smesso di ridere e fissano la scritta con estrema attenzione.
Dopo qualche attimo di silenzio, chiedo: “E con questa parola siete d’accordo?”. Annuiscono. “Anche chi non è davvero clandestino fuori, qui dentro lo è” sento dire a bassa voce.
Fermiamoci un attimo.
La nostra mente funziona spesso secondo il principio della categorizzazione e della classificazione. Sapete quante parole esistono per dire le persone che abitano il carcere? Io ne ho contate cinque (se si escludono quelle che specificano la loro condizione giuridica, come condannato, definitivo, ergastolano…):
detenùto [part. pass. di detenere] – Chi sconta una pena detentiva.
carceràto [part. pass. di carcerare] – Chi è detenuto in un carcere: visitare i c. (anche come una delle «opere di misericordia»); fare una vita da c., starsene sempre rinchiuso, godere di scarsissima libertà.
reclùso [part. pass. di recludere] – Che vive in condizioni di segregazione, di prigionia.
galeòtto [der. di galèa] – 1. Chi era condannato a prestare servizio come rematore sulle galee, incatenato al banco. 2. Condannato alla galera, nel sign. oggi in uso della parola; e per estens., furfante, brigante, persona di grande furberia: s’è fatto imbrogliare da quel galeotto.
prigionièro [dal fr. prisonnier, der. di prison «prigione»] – Chi è tenuto rinchiuso in un luogo in modo da essere privato della propria libertà personale.
Ma clandestino no, non si trova. Eppure sembra spiegare benissimo, per le persone che ho di fronte – e anche per me, ora che ho cominciato a guardarla con i loro occhi – il senso di estraneità e di invisibilità che prova chi è ristretto.
Ristretto, eccone un’altra:
limitato; sacrificato in uno spazio minore di quello che sarebbe necessario.
E va bene, va bene usare le categorie come strumento provvisorio per provare a fare ordine nella complessità del reale, ma poi non ci si può fermare lì. Non si può ridurre qualcosa di così sfaccettato come l’identità a una parola sola, appesa al collo di chi si offre alla nostra conoscenza, come un sasso che lo trascini verso il basso, verso l’unico spazio che gli concediamo di abitare.
“Clandestini,” dico allora “ripartiamo da qui e facciamo un brainstorming. Ma non ditemi chi siete, questa volta, ditemi come vorreste che gli altri vi vedessero, come vi immaginate.”.
Le tecniche di brainstorming si possono usare a scuola per dare concretamente la parola alla classe e per costruire un sapere condiviso, in modo libero, spontaneo e informale, incoraggiando le associazioni di idee e il pensiero creativo.
Ed ecco che la lavagna si popola di parole tanto semplici, quanto significative:
libero, calmo, perdonato, migliore, sereno, amato, studente, genitore...
Ci soffermiamo su ognuna: nascono altri germogli, emergono connessioni inaspettate, si mettono in moto un sacco di emozioni diverse.
Clandestini resta al centro, ma è diventata solo una parola delle tante; un cerchio da cui partono infinite ramificazioni. Alla fine davanti a noi c’è una mappa, che racconta il passato, ma soprattutto si apre al futuro e alle possibilità.
Abbiamo lanciato quel sasso di cui parlava Rodari, e le onde hanno chiamato altre onde: da un piccolo stagno, abbiamo viaggiato attraverso i fiumi, fino al mare.
2. Officina creativa
Dato che in questa newsletter parliamo di scuola, ho deciso che in ogni puntata vi proporrò degli esercizi.
Oggi ci concentriamo proprio sull’idea del “sasso nello stagno” di Rodari.
L’anno scorso ho insegnato in una classe quinta della scuola primaria. Un giorno ho detto: “Tra poco vi lancerò una parola, e voi scriverete per 7 minuti senza fermarvi, senza mai staccare la penna dal foglio, assecondando le note della canzone che sta per cominciare.”.
“Sasso” ho scritto con impeto alla lavagna, e poi ho cliccato “play”.
Quante cose si sono messe in moto…
Ripensando a quel momento, a voi dico: “Mattone”. Cosa vi viene in mente? Sarebbe bellissimo costruire una catena di parole nei commenti.
Poi toccherà a me, e vi racconterò perché ho deciso di chiamare Mattone proprio così.
Grazie di essere qui e alla prossima puntata,
Sara
Sul ridere delle scelte sbagliate e delle disgrazie (in carcere e non solo) forse tornerò in un’altra puntata. Mi preme però dire fin da subito che ridere non significa necessariamente assolversi, né prendersi alla leggera. Anzi. Spesso è proprio a partire da quelle risate che si va davvero in profondità e ci si districa tra i meandri della colpa e delle sue conseguenze.
Ciao Sara
La prima cosa che mi è venuta in mente è stato leggere un libro pesante come un MATTONE.
A seguire mettere un mattone dopo l'altro per costruire qualcosa di importante.
Vorrei anche dirti che hai un modo di scrivere molto profondo e lascia nel lettore una forte emozione.
Ciao Sara,
se mi lanci un “mattone” io penso alla terra battuta dei campi da tennis, alle cascine lombarde nel caldo estivo, a un gessetto colorato che scrive sul pavimento di un cortile, al sudore di un operaio in canotta, a un muro dove appoggiarsi prima di ripartire.