“…e te” chiese a Karim “com’è che ti chiami?” Si industriò a ripetere un paio di volte ‘Karim’, ma non gli veniva proprio. Propose un compromesso: “Ti dispiace se ti chiamo Gianni? È più semplice”.
‘Perdo un altro pezzo’ pensò Karim ‘il nome!’.
Abdel Malek Smari, Fiamme in Paradiso
Ciao, sono Sara, e questa è la prima puntata di Mattone: una newsletter che parla di scuola, educazione, cittadinanza attiva, e tutto quello che c’è attorno.
Insegnare è, per me, prima di tutto, imparare; sperimentare; mettersi in gioco e in discussione; aprirsi a sé e all’Altro; avere fiducia.
La prima cosa che imparo, ogni anno, sono i nomi delle persone che incontro.
Dallo scorso ottobre, insegno Italiano, Storia e Geografia in un CPIA (un Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti), in un corso serale e nel carcere della città. Le mie tre classi sono composte esclusivamente da studenti stranieri o d'origine straniera. Parecchi dei loro nomi sono stati, all'inizio, qualcosa di totalmente nuovo per le mie orecchie.
Il primo giorno ho fatto cadere più volte gli accenti nei posti sbagliati, ho tentato di aspirare lettere che non andavano aspirate, e spesso mi sono sentita inadeguata.
A un certo punto, mi sono resa conto di aver preso ad accorciare il nome di uno studente (che percepivo come molto lungo e particolarmente ostico), probabilmente per evitarmi la fatica e soprattutto l'imbarazzo di sbagliare ripetutamente.
Il rischio concreto era quello di riversare il mio disagio (che nasceva da una mia incapacità di riprodurre suoni che non riconoscevo come familiari) sulle persone che avevo di fronte e sui loro nomi.
E quindi? Ne ho preso atto e ho cercato di fare meglio. Ho scelto cioè di imparare mettendomi in ascolto.
Un po’ per esplorare questa mia esperienza, un po’ perché ogni lezione comincia sempre con il rito dell'appello, ho deciso di inaugurare la newsletter con una riflessione sul “chiamare per nome” e su cosa può significare, veicolare e comportare, a scuola, soprattutto quando i nomi in questione sono altri rispetto a quelli della cultura dominante.
Iniziamo?
1. Il nome come identità e diritto
Il nome è spesso il primo elemento con cui ci si introduce al mondo e a chi s’incontra, segno tangibile delle nostre esistenze.
Possiamo riceverlo da altrə, alla nascita, oppure sceglierlo. È espressione delle nostre identità e al tempo stesso ha finalità sociali: può segnare legami di appartenenza a famiglie, culture e comunità. Attraverso il nome, entriamo a far parte di insiemi più grandi di noi e ci rendiamo individuabili. Con il nostro nome, veniamo conosciutə e riconosciutə.
Guarda caso, il nome è considerato uno dei diritti fondamentali della persona. Questo significa che non si può negare a nessun individuo un nome come strumento di identificazione1.
Cosa c’entra tutto questo con la scuola?
C’entra.
Partiamo dall’appello: un elenco di nomi e cognomi, in rigoroso ordine alfabetico, che nelle classi risuona, giorno dopo giorno, sempre all’incirca uguale a se stesso, come una sorta di cantilena.
All’apparenza mero strumento burocratico, in realtà le sue implicazioni possono rivelarsi molto potenti.
L’atto di nominare – in qualsiasi momento – dovrebbe essere sempre anche un modo per dire: “Ti vedo. Ti riconosco.”. Dovrebbe essere, cioè, anche uno dei mezzi con cui si va a costruire e a consolidare la relazione educativa.
2. Il nome straniero come fardello
Nel racconto d’ispirazione autobiografica Chiamatemi Mina, Fitahianamalala Rakotobe Andriamaro scrive:
L’appello a scuola era un vero tormento. Sgranavo col respiro e col petto quell’elenco di rintocchi nitidi dal suono via via più forte fino all’apice, il mio nome, su cui la maestra avrebbe indugiato più che sugli altri, avrebbe faticato imbarazzata e al suo disagio si sarebbe aggiunto il mio. I bambini mi avrebbero guardata. Io avrei sorriso, anticipando il resto della scena […].
È frequente che a chi porta nomi percepiti come insoliti venga chiesto (in modo più o meno esplicito) di “rielaborare” la propria cultura di provenienza, per far sentire a proprio agio chi appartiene alla cultura dominante2.
Come accade nel resto della scena:
– Come ti chiamano di solito?
– Mina.Mina.
Così facile, pronto all’uso, immediato e intuitivo come premere un pulsante: e d’improvviso la tensione cala. Meno male. Niente più imbarazzi né sforzi per alcuno, conoscente o meno, grazie a quei pochi fonemi accessibili ad ogni italiano dai due ai cento anni; e chiunque può finalmente riprendere in mano la sua vita giocandola nella tranquillità del quotidiano e del noto […].
Un’invenzione letteraria, o magari un caso isolato? Non esattamente. Per rendersi conto della portata della questione, basta dare un’occhiata all’articolo È assurdo che i nostri nomi stranieri vengano percepiti come un problema di Nadeesha Uyangoda, dove, per esempio, si legge:
Prasad, all’anagrafe Wisidagamage Don Prasad Nuwantha, per tutta una vita ha continuato a ripetere a tutti, insegnanti compresi, che “basta leggere così come è scritto. Sillaba dopo sillaba.” Nonostante il preambolo, il suo nome “è sempre stato sottoposto a storpiature e cattive pronunce.”
[…]
Per Prasad, “rimane lo sconcerto del dover ogni volta subire sguardi curiosi o risatine da parte dei presenti quando durante un appello, arrivati al mio cognome, chi legge mette subito le mani avanti Ah nono questo non so leggerlo! Chi è questo? Alzi la mano per favore.”
Dare per scontate la ricezione positiva (o per lo meno neutra) e la pronuncia corretta del proprio nome è in effetti una forma di privilegio.
Se portate un nome italiano, magari molto comune, e il concetto di privilegio vi sembra un’esagerazione, provate a rispondere a queste domande e poi pensate a come risponderebbero Prasad e la protagonista di Chiamatemi Mina:
Mi identifico nel mio nome, o vorrei poterlo cambiare? È un nome comune, nel Paese in cui vivo? Quando lo dico ad alta voce, le persone come si comportano, di solito: lo rifiutano, lo evitano, lo accettano oppure lo accolgono? Lo usano abitualmente quando parlano con me e di me? Lo pronunciano correttamente (o almeno ci provano)?
La negazione di un nome straniero può prendere tante forme diverse: dall’italianizzazione (traduco, oppure uso il primo nome proprio italiano che percepisco come somigliante), alla deformazione (storpio le lettere, accorcio la parola, sposto l’accento…), fino ad arrivare all’evitamento (non so leggerlo; quindi non lo leggo affatto)3.
La persona che assiste allo snaturamento del proprio nome, può vivere al contempo un’esperienza di indifferenza, di privazione e di perdita. Come spiega la scrittrice Nadeesha Uyangoda:
Rifiutarsi di imparare a pronunciare un nome straniero […] riguarda soprattutto il rifiutarsi di riconoscere una parte fondamentale dell’identità di una persona e, in questo senso, la si potrebbe anche considerare una forma di microaggressione che va a ledere la dignità di chi quel nome porta. Succede infatti che le persone con nomi non convenzionali siano stigmatizzate a punto da finire per esserne imbarazzate, o da sentirsi in dovere di cambiarlo pur di essere accettate dall’ambiente in cui si trovano a vivere. Soprattutto […] quando le persone in questione fanno parte di una minoranza.
3. Cosa può fare la scuola?
La scuola dovrebbe essere capace di essere (o almeno provare a essere) autenticamente inclusiva, in ogni ambito e in ogni istante; avere cura di ciascun nome, fare in modo che le persone si sentano chiamate, riconosciute, guardate. Tutte. Con particolare sensibilità nei confronti di chi appartiene a gruppi altri rispetto a quello dominante.
Proprio come suggerisce Carlotta Cerri nella newsletter La Tela, in una puntata intitolata Stereotipi sulle culture. Rifletti sul tuo razzismo e vai oltre il multiculturalismo, la via da seguire, in fondo, è semplice:
Riconoscere di far parte del problema e mettersi in ascolto.
Quindi, concretamente, cosa possiamo fare in classe quando percepiamo un nome come insolito?
Fare i conti con i nostri limiti, i nostri pregiudizi, i nostri errori.
Aprire bene le orecchie e – se serve – chiedere a chi porta quel nome di insegnarci a pronunciarlo. Ça va sans dire, ponendo l’accento sulla nostra incapacità e non su una presunta stranezza intrinseca al nome stesso.
Per intenderci, non: “Che nome strano! Se non mi insegni, non imparerò mai a pronunciarlo.”. Possibilmente neppure: “Come si pronuncia?” (che in un certo senso sposta la responsabilità sulla persona che porta il nome, come se le stessi dicendo che: 1. è tenuta a insegnarmi la pronuncia corretta e 2. è scontato che io già non la conosca). Secondo me, meglio invece qualcosa come: “Potresti insegnarmi a pronunciare il tuo nome? Non ne sono ancora capace, ma mi piacerebbe imparare.”.
Nominare, nominare, nominare: rendere quel nome presente e costante, fino a farne un pilastro della relazione educativa.
Quest’ultimo punto, a mio parere, è la chiave di tutto. In che senso?
Partiamo dal presupposto che chiamare per nome (italiano o straniero che sia) una persona quando le rivolgiamo la parola, può avere un effetto estremamente positivo sulla comunicazione, e quindi sul legame che andiamo a intrecciare con lei.
L’appello non può essere l’unico momento in cui le persone presenti vengono nominate: io credo che i loro nomi dovrebbero essere pronunciati con attenzione e spesso; perché è anche nel dire quei nomi ad alta voce che si costruisce e si rinforza la relazione educativa.
Non valgono i “Tu, al primo banco!”; non valgono i nomi appena accennati, o pronunciati a casaccio. Non valgono i nomignoli imposti dall’alto (che possono rivelarsi dannosi, non solo quando disprezzano o deridono, ma anche quando vezzeggiano). Non vale neppure - lo ribadiamo - chiedere a chi ci sta di fronte di offrirci una scappatoia, se ci sembra troppo difficile leggere il suo nome.
È fondamentale che in classe i nomi emergano e riaffiorino ripetutamente in superficie, e che l’insegnante li accolga, li memorizzi (il più rapidamente possibile, nei giorni iniziali dell’incontro) e ne incoraggi l’uso: se un intero gruppo comincia a chiamare una persona per nome, ecco, quello è un primo passo nel riconoscerla (e nel farla sentire riconosciuta) nella sua esistenza, nella sua identità, nel primo dei suoi diritti.
4. Cosa può fare, per i nomi, la scuola, in carcere? Lo stesso, ma a voce ancora più alta.
Un lunedì, uno studente del carcere è arrivato in ritardo, preoccupato di non aver partecipato all’appello. Ho provato a rassicurarlo immediatamente, assicurandogli di aver segnato la sua presenza non appena era entrato in classe.
“E come ha fatto?” mi ha chiesto.
”Con una P vicino al tuo nome, sul registro.”
”Qual è il mio nome?” mi ha chiesto.
Quando ho risposto, ha sorriso e si è portato una mano sul cuore.
L’art. 1 comma 6 della Legge 354/1975 recita: “I detenuti e gli internati sono chiamati ed indicati con il loro nome”.
In un luogo dove il rischio di cadere nell’anonimato, nell’abbandono, nel sentirsi un numero più che una persona – tra sovraffollamento e problemi strutturali – è elevatissimo, il diritto al nome acquisisce un valore particolare.
Come ha scritto il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale:
Per chi è ristretto, l’anonimia evidenzia un’ulteriore specifica vulnerabilità, che si aggiunge a quella del trovarsi privato della possibilità di autodeterminare il proprio muoversi e il proprio decidere. Un insieme di vulnerabilità che, in quanto tale richiede sempre un’accentuazione di tutela dei diritti...
E allora, almeno nelle classi, diciamo questi nomi ad alta voce, ripetiamoli, scriviamoli, perché le identità continuino a esistere.
Mattoncini per approfondire
La puntata #66 della newsletter
, di , che tratta dell’aspetto politico della denominazione, di bias cognitivi e del legame tra identità e tecnologia.L’articolo di Vera Horn, Voglio essere io a dire come mi chiamo: nome e paradigma identitario nella letteratura italiana della migrazione, che esplora una serie di romanzi e racconti in cui è centrale il tema del nome (alterato, ridicolizzato, cancellato) di persone emigrate in Italia. [Si può leggere qui]
La puntata #38 della newsletter
, dove interpreta i nomi stranieri delle piccole persone che incontra nelle scuole come segni bellissimi di quella mescolanza che sempre ci circonda, perché ci “fanno sentire il valore profondo del mondo che si muove, di una società che cambia incontrandosi”.Il già citato articolo È assurdo che i nostri nomi stranieri vengano percepiti come un problema di Nadeesha Uyangoda, dove l’autrice parte dalla propria esperienza personale e da una serie di testimonianze per esplorare le possibili conseguenze psicologiche di portare un nome straniero in Italia, toccando anche il tema del cosiddetto “sbiancamento del curriculum”. Il suo giudizio sulla scuola è netto quando scrive: “La scuola sembra essere la palestra in cui si allena questo comune senso di inadeguatezza che ci porta ad accettare una mezza identità, e nemmeno pronunciata correttamente.”.
Da ascoltare: la puntata “Il diritto al nome” del podcast “Le parole dell’accoglienza”, a cura del Centro Astalli, che racconta in pochi minuti la storia di Mark e del suo nome.
Un altro tema importante, che emerge con forza in relazione al nome, è quello delle carriere alias, che – laddove attivate – consentono alle persone transessuali, tra le altre cose, di essere chiamate, a scuola, così come hanno scelto per sé. Si può partire da questo articolo, che spiega i punti essenziali in modo semplice.
Parliamone
A te è mai capitato di non essere chiamatə con il tuo nome, a scuola? Come ti ha fatto sentire?
Se porti un nome che spesso viene percepito come insolito, quali consigli puoi dare a noi insegnanti?
C'è qualche aspetto del “chiamare per nome” che non ho menzionato in questa puntata e che a tuo parere è invece importante?
Alla prossima puntata,
Sara
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In Italia, l’articolo 22 della Costituzione recita: “Nessuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome.” e l’articolo 6 del Codice Civile ribadisce: “Ogni persona ha diritto al nome che le è per legge attribuito.”.
I nomi stranieri più colpiti sono quelli portati da persone che appartengono a gruppi razzializzati. [Per approfondire il concetto di “razzializzazione”, si può partire da qui]
Può accadere che un nome venga percepito come “straniero” anche quando proviene da un'altra regione – italiana – rispetto a quella in cui si trova la scuola e a cui “appartiene” l'insegnante, soprattutto se nella cultura dominante in quell’area gode di inferiore prestigio sociale.
Un giorno ho sentito una persona (che insegna) dire: “I nomi indiani e cingalesi sono troppo lunghi. Io sinceramente mi rifiuto di leggerli.”.
Ciao
Contenuto molto bello e anche l'idea della newsletter! Grazie!
Poco tempo fa è uscito il mio saggio che si chiama "Tra i bianchi di scuola" (Einaudi, 2024) pensato proprio per gli/e insegnanti italiani; e il primo capitolo è proprio "Il nome". Non voglio farmi pubblicità o altro ma è un testo che ho scritto proprio perché questo tema mi sta particolarmente a cuore.
Per quanto riguarda le domande: per una che si chiama Espérance Hakuzwimana diciamo che è stato (ed è ancora) un tema molto centrale della mia esperienza quotidiana.
Ho imparato però che dopo gli anni dell'incertezza e della costruzione della mia identità, è anche mio compito mettere in gioco il mio desiderio di essere vista dalle persone che incontro e dagli spazi che attraverso. Quindi con ferma dolcezza pretendo sempre che, qualora non si avesse la più pallida idea di come pronunciarlo, mi venga chiesto e io sono sempre ben felice di insegnarlo. Anche perché poi è molto più facile di quello che sembra 😅
Così, come suggerisco da sempre: chiedere se non si capisce, chiedere se non si sa, chiedere come si può migliorare e tenere in conto di poter sbagliare ricordandosi che chi insegna qualcosa a qualcuno non per forza deve essere maggiorenne e stare dietro a una cattedra!
Ciao ✨
Hai davvero centrato il punto, ed è una questione che riguarda tutti: anche coloro che sono animati dalle migliori intenzioni e respingono sinceramente qualsiasi atteggiamento razzista o di superiorità culturale. Tra l'altro, su un piano molto più personale e intimo, ho conosciuto io stesso fin da bambino i disorientamenti che possono essere legati al nome. Tanto che, dopo cinquant'anni di scarsa consapevolezza, ho deciso che era arrivato il momento di "morire" al nome che mi era stato imposto e scegliermi il mio "vero nome".